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Complesso di Frankestein? Lo psicologo: “la tecnologia sembra un mostro perchè non si capisce cosa può fare insieme all’uomo”. [INTERVISTA]

Tecnologia sul lavoro, amica o nemica? Non è una domanda dalla risposta sem­plice. Già nei primi anni dell’800 nasce il luddismo come forma di protesta contro le prime macchine, accusate di sottrarre posti di lavoro e ridurre i salari degli operai. Oggi, però, la tecnologia anziché sostitu­ire le capacità fisiche umane, interviene a coadiuvarne quelle mentali, eppure viene spesso percepita come fonte di stress sul lavoro, perché? Come interagiscono il cervello umano e le tecnologie? È ciò che abbiamo cercato di comprendere intervi­stando Massimo Servadio, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, nonché spe­cialista in sicurezza sul lavoro e valutazio­ne e gestione dello stress organizzativo. Cerchiamo di capire con lui come si pos­sono cogliere i lati positivi della tecnologia riducendo i fattori di stress che essa può generare sul lavoro.

Tecnologia e stress sul lavoro è un tema affrontato fin dalla nascita delle catene di montaggio, quali sono le cause per cui la tecnologia stressa i lavoratori nono­stante i computer, ad esempio, siano in realtà dei validi aiutanti?
La tecnologia, in sé e per sé, non è un fat­tore di stress, è l’interazione tra il lavorato­re e la tecnologia che può diventare causa di stress quando è disfunzionale invece che proattiva e costruttiva. La tecnologia è importante, ma bisogna focalizzarsi sull’in­terazione che abbiamo con essa.

Parlando di tecnologia e stress sul lavoro non si può fare a meno di pensare a come sia cambiato il mondo del lavoro negli ul­timi due anni con la pandemia CoViD. A suo parere quali sono le best practice che un’azienda può mettere in atto per ridur­re i lati negativi del telelavoro?
Principalmente direi che è necessario non marginalizzare i lavoratori con meno competenze digitali. Questo significa farsi sentire molto vicino. in particolare i team leader coi propri collaboratori, ma anche implementare nel breve periodo un pro­cesso formativo sulle soft skill, ovvero sulle competenze non tecniche che ser­vono per lavorare meglio da remoto. Dal punto di vista delle infrastrutture bisogna permettere ai lavoratori di avere delle in­terconnessioni e dei collegamenti efficaci. Questi sono i primi interventi. L’.altra cosa a mio avviso importantissima. che coinvolge team leader e capi funzione, è di riuscire a governare processi misti. ovvero quelli che vedono sia le persone in presenza. sia le persone in remoto. Inoltre si sente mol­to forte la necessità non solo di avere dei contatti frequenti coi propri collaboratori. ma soprattutto di ascoltarli, che è in assoluto la competenza maggiormente richie­sta in questo periodo.

Col telelavoro viene meno l’aiuto dei neuroni specchio di cui lei parla nel suo blog, come può un manager cogliere gli stati d’animo dei suoi collaboratori e mantenere alta la motivazione?
Per quanto riguarda gli stati d’animo. il manager deve esercitare delle abilità che appartengono alla sfera più umanistica, come l’ascolto e l’empatia. Ciò che è molto negativo è il silenzio organizzativo. mentre è importantissimo, ad esempio. che i ma­nager sviluppino una cultura dell’asserti­vità e del feedback. cioè l’informazione di ritorno che ricevono dai propri collabora­tori. In questo modo la motivazione non dico che può aumentare. ma sicuramente può essere monitorata.C’è anche un altro tema da affrontare a mio parere fonda­mentale: come gestire il lavoro da remoto. Il significato del lavoro è stato stravolto. si lavora per obiettivi. quindi è necessaria una cultura più orientata al raggiungimen­to dei risultati, spesso in autonomia, ri­spetto alla cultura del presenzialismo che, fino a prima della pandemia, ha governato i nostri processi lavorativi.

Però la cultura del presenzialismo è un po’ dura da scardinare …
Durissima. ci vuole tantissimo tempo. Si pensi al tessuto italiano, ai nostri impren­ditori, ai nostri datori di lavoro. Nelle mi­croimprese questo tipo di cultura è molto dura da scardinare e un’azione di sistema diventa importante: le associazioni e i vari interlocutori, istituzionali o meno che sia­no, devono cercare in qualche modo di far comprendere al tessuto imprenditoriale, e manageriale nelle grandi aziende, come il significato e la cultura del lavoro siano cambiati e come sono ora orientati verso un lavoro per obiettivi e risultati che pre­vede autonomia e non necessariamente presenza.

Da un punto di vista psicologico, perché alcuni lavoratori sono entusiasti della possibilità di lavorare da casa e altri vor­rebbero tornare in ufficio?
Partiamo dalle condizioni della casa [ride, Ndr]. Nel senso che se la casa garantisce la possibilità di lavorare senza avere inter­ferenze della sfera privata, allora i lavora­tori possono essere propensi al lavoro da remoto. Dove dal punto di vista struttura­le gli spazi sono limitati e lo spazio lavoro interferisce con le normali attività di casa, tra cui la Dad e l’istruzione dei propri figli, le persone preferiranno tornare sul posto di lavoro perché gli permette di performare meglio. L’altra considerazione da fare è si­curamente sull’età del lavoratore: quelli di fascia più giovane probabilmente sono più abituati alla possibilità di organizzare il pro­prio lavoro anche a distanza. È sicuramen­te una questione che ha anche aspetti di natura generazionale.

In Italia ha fatto molto discutere la scelta di un noto colosso statunitense (Ama­zon) di usare un algoritmo per la valuta­zione dei dipendenti. A suo parere può la tecnologia sostituire l’essere umano in un campo cosi delicato?
lo credo che una situazione come quella del colosso americano di cui lei parla, sia a mio avviso penalizzante perché rende inumana la relazione di collaborazione che deve esistere tra lavoratori e manager o datore di lavoro. Riduce tutto a un nume­ro, a una prestazione, a un’assegnazione di compiti da eseguire in un determinato tempo, quindi va in qualche modo a elu­dere la possibilità di “prevalere” in termini di competenze, anche non tecniche, per­ché conterà solo la capacità di raggiunge­re i traguardi assegnati a prescindere dalle altre variabili. Credo sia una scelta decisa­mente penalizzante in termini di capitale umano, quindi in quello che è il valore delle relazioni, dei confronti e della possibilità di esprimere competenza all’interno delle nostre organizzazioni.

E dal punto di vista del lavoratore stressa più un supervisore umano o computeriz­zato?
Sicuramente stressano entrambi, solo che col supervisore umano talvolta si ha la possibilità di avere un confronto sui conte­nuti, mentre col supervisore tecnologico questo assolutamente non avviene per­ché verifica solo il raggiungimento di un risultato.

Magari potrebbe garantire una maggiore imparzialità, mentre a volte i lavorato­ri lamentano dei favoritismi all’interno dell’azienda …
Il tema dell’equità organizzativa è molto importante e spesso dimenticato dai ma­nager. Un manager che pone al centro il tema della giustizia e dell’equità organizza­tiva è sicuramente premiato e ben visto dai propri collaboratori. Certo, se il tema della giustizia organizzativa non è seguito, allora un algoritmo potrebbe evitare fattori di di­seguaglianza.

Gamfflcation e serious games possono essere strumenti utili a formare la sicu­rezza sul lavoro: funzionano anche se me­diati esclusivamente dalla tecnologia?
Secondo me la modalità in remoto e quella in presenza non sono alternative, ma pos­sibilità in più. lo credo che dal punto di vista della formazione la possibilità di accedere a queste due modalità arricchisca il con­tenuto formativo e anzi la proposta po­trebbe essere più allettante perché si uti­lizzano modalità che sono quelle del gioco con la finalità di evidenziare un percorso di apprendimento.

Conflitto uomo-macchina, nel 21° se­colo siamo ancora così terrorizzati dal complesso di Frankenstein?
A mio avviso non si è costrui­ta abbastanza cultura sull’argomento. Si è parlato di cultura digitale. di trasformazio­ne digitale ma poi negli aspetti pratici non si è fatta sensibilizzazione e creata cultura all’interno delle nostre organizzazioni. così a volte la tecnologia resta un “mostro”. perché non se ne conosce l’applicabilità: rimangono paure e timori giustificati dalla non conoscenza degli aspetti pratici e di cosa la tecnologia può fare insieme all’uo­mo.

La macchina ha dapprima sostituito il corpo dell’essere umano, ora prova con l’intelligenza. Nell’Ottocento nacque il Luddismo, oggi invece si è entusia­sti. Perché l’uomo si sentiva minacciato quando si trattava di alleviarne le fati­che fisiche ed è invece contento se deve pensare di meno. Ha davvero così scarsa stima di se stesso?
No, non si tratta di fiducia in se stesso. Tendenzialmente l’uomo ha una serie di abitudini tra cui quella del risparmio cogni­tivo, quindi questa diventa un’opportunità in termini di risparmio di risorse ed ener­gie. È semplicemente una manifestazione diversa di un’abitudine che in realtà è con­solidata nell’uomo.

Le nuove A.I. (come Alexa) che si sono affacciate sul mercato negli ultimi anni possono aiutare a combattere lo stress da tecnologia? Alexa ad esempio verrà usata su Artemis I per capire come può aiutare gli astronauti a svolgere i propri compiti.
Le nuove intelligenze artificiali non posso­no combattere lo stress da tecnologia. Vi­ceversa, è opportuno che siano il più pos­sibile user-friendly e che siano spiegate ai lavoratori. Solo laddove c’è veramente un supporto e una giusta formazione rispet­to alle Al. si può ridurre tutta quella parte di stress che deriva dalla preoccupazione per la prestazione, o anche dall’insicurez­za del posto di lavoro: un lavoratore si può sentire inadeguato rispetto a una tecno­logia emergente in continuo aggiorna­mento. E tutto questo è per il lavoratore una fonte di stress. Quindi la formazione sulle nuove tecnologie e la garanzia che un help-desk tecnico possa supportare l’organizzazione e i propri dipendenti sono strategie valide per calmierare i fattori di stress prima evidenziati.

Quindi possiamo dire che in questo modo la tecnologia potrebbe aiutare a ridurre lo stress sul lavoro anche in pre­senza?
Si. nella misura in cui c’è un supporto al la­voratore sul significato della tecnologia e su come funziona. Ove non c’è questo e la tecnologia viene attuata senza nessun tipo di formazione e successivo supporto. può diventare fonte di stress per il lavora­tore.