La “Cultura della Sicurezza”, viene spesso menzionata per lamentarne la carenza o l’assenza.
Riconosciute le differenze tra gli adempimenti spettanti ai Datori di Lavoro, Dirigenti e Preposti ed ai lavoratori, la negligenza verso la sicurezza non riconosce barriere fisiche o funzionali.
In molte situazioni parlare di Cultura della Sicurezza, suona come una scommessa o addirittura “un lusso che non ci possiamo permettere”.
Per “Cultura della Sicurezza” ci riferiamo all’insieme dei processi organizzativi e delle pratiche professionali, delle norme scritte e delle convenzioni informali, dei linguaggi, dei modi di pensare, di percepire e di rappresentare il rischio in azienda.
Purtroppo la sua promozione e interiorizzazione tra i lavoratori, trova diversi ostacoli di natura quotidiana. Innanzitutto, la considerazione da parte delle organizzazioni e dei lavoratori, che per raggiungere un risultato sia necessario affrontare un rischio ed un costo, seguita dal sussistere di un notevole scarto tra i processi di riorganizzazione delle modalità di valutazione e gestione dei rischi e la reale organizzazione del lavoro.
A questi fattori bisogna aggiungere il poco interesse tuttora persistente, rivolto al “fattore umano-soggettivo”, penalizzato in favore degli aspetti tecnico-organizzativi dell’azienda.
Spesso si ha una coscienza limitata dei rischi che si corrono: la percezione e l’interpretazione della
situazione rischiosa sono demandate ad euristiche cognitive di tipo ingenuo, di per sé oggetto di distorsione o a fenomeni ricorrenti di “induzione popolare”, che non si basano sui numeri obiettivi, ma sull’impatto psicologico che hanno gli incidenti, soprattutto quelli più recenti, sui lavoratori stessi.
A questo va affiancato il concetto che in psicologia è stato definito perdita di paura: ogni volta che un lavoratore trascura una procedura senza incorrere in un danno, perde un po’ di quella paura che lo spinge ad adottare comportamenti sicuri.
Per quale motivo non si investe nella sicurezza?
Oggigiorno investire nella sicurezza è ritenuto troppo dispendioso. In realtà analizzando più nel dettaglio la letteratura manageriale, essa ci mostra come una gestione poco responsabile della sicurezza agisce sulla voce “costi diretti”, esempio:
• vendite e l’export
• clima interno
• posizionamento
• diminuzione della redditività
• aumento del premio INAIL
• danni agli impianti
• danni alle persone
• sostituzione dell’infortunato
• rapporti con l’autorità
• spese legali
e sulla voce “costi indiretti”, rappresentati ad esempio:
• tempo di lavoro perso dal lavoratore
• tempo di lavoro perso dai lavoratori del reparto
• perdita di efficienza per la rottura del team e tempo perso dal responsabile
• costi di formazione per il rimpiazzo
• danni alle attrezzature
• danni indiretti derivanti dall’incidente
• fallimento nel rispetto delle scadenze
• reputazione dell’azienda
• clima interno psicologico
Come si costruisce una Cultura della Sicurezza in azienda?
Per costruire una cultura della sicurezza in azienda, bisogna per prima cosa, cominciare ad abituarsi a “pensare sicuri” in una logica di benessere globale che coinvolga l’uomo, il cittadino ed infine il lavoratore.
Per concretizzare l’idea astratta di sicurezza in una realtà tangibile, bisogna dar tempo alla cultura della sicurezza di mettere radici profonde nel terreno sociale: a tal fine troverebbe utilità allo scopo l’introduzione della formazione alla sicurezza ed alla salute, non solo nell’ambiente lavorativo, ma a partire dal programma scolastico curriculare: lo scopo è quello di sensibilizzare i giovani e creare canali volti a favorire la diffusione di buone pratiche, tenendo anche conto che in questa fase il futuro imprenditore e il futuro operaio si trovano in un’ideale condizione di parità e neutralità davanti all’informazione che oggettiva la sicurezza sul lavoro.
Come si diffonde una Cultura della Sicurezza?
La diffusione della Cultura della Sicurezza, trova terreno fertile, quando un’azienda, nei processi di governance passa dal mero adempimento alle leggi, ad un approccio più ampio e condiviso verso il significato comune del lavorare in sicurezza, tenendo conto della produttività e contemporaneamente del benessere delle persone.
Inoltre sono sufficienti importanti e mirati investimenti volti all’ottimizzazione delle modalità gestionali, in particolare sui capi, sui coordinatori, sui ruoli di responsabilità, sulle relazioni tra i lavoratori.
Ancora: agire sui comportamenti, smontare le cattive abitudini e favorire le buone prassi, stimolare la motivazione alla sicurezza attraverso una formazione partecipata e periodica a tutti i livelli, ma soprattutto dare il buon esempio dal punto di vista comportamentale, a partire dall’autorevolezza dei responsabili attraverso una comunicazione formale ed informale coerente e un buon sistema di premi e punizioni.
Ma soprattutto vi è la necessità che dai livelli gerarchici superiori ci sia un’effettiva sensibilità alla tematica, un lavoro continuo di prevenzione e di attenzione e la reale volontà di favorire il benessere dei propri collaboratori. La mancanza di queste premesse genera incoerenza tra il contenuto dei messaggi espressi nei corsi o dai dettami di legge ed il comportamento effettivo dei responsabili, incurante delle norme e dell’importanza della prevenzione.
L’appropriazione di un concetto e modo di vivere la sicurezza da parte di tutti i lavoratori, rappresenta l’obiettivo organizzativo a cui tendere.
Cosi facendo, mettere in atto una procedura o indossare un DPI diventerà un preciso e consapevole segnale culturale, non più un mero obbligo prescrittivo imposto.
Dott. Massimo Servadio
articolo pubblicato su “Genova Impresa” n.1/2012 pp.58-59